Vorrei fingere per un attimo che La chiave a stella di Primo Levi sia una nuova uscita, nonostante sia stato pubblicato nel 1978 e nello stesso anno abbia vinto il Premio Strega, semplicemente perché è un libro che merita di essere letto.
Pubblicato da Einaudi e ora disponibile nella collana ET Scrittori (178 pagine, 11 euro), narra l’incontro alla mensa per stranieri dell’autore con il tecnico specializzato Tino Faussone, entrambi in trasferta in un paese estero.
Levi è nella veste di esperto di vernici per l’ultima volta, spiega infatti che
“essendo un chimico per l’occhio del mondo, e sentendomi invece sangue di scrittore nelle vene, mi pareva di avere in corpo due anime, che son troppe”
e ha deciso di dedicarsi solo alla letteratura.
Faussone gli confida che fin da ragazzo desiderava viaggiare e, dopo un periodo di impiego in una fabbrica di automobili, per realizzare questo sogno ha scelto di diventare un montatore di grandi impianti.
La scrittura di Levi, composta e quasi divertita, fa da cornice al lessico semplice di Faussone, che alterna termini piemontesi a frasi fatte e a vocaboli ricavati dalle varie lingue parlate “scorrettamente ma correntemente” per raccontare aneddoti della sua vita professionale e di quella privata accaduti nelle zone più disparate del mondo e d’Italia.
L’autore compare in veste di ascoltatore e solo alla fine spiegherà al compagno la ragione della sua trasferta riportando un episodio che per lo stile potrebbe far parte di un altro suo libro: Il sistema periodico, pubblicato sempre da Einaudi nel 1975, dove ogni racconto è ispirato da un elemento della tavola di Mendeleev.
Donne e uomini sono descritti quel tanto per aiutare l’indagine psicologica, così la voracità di Faussone diventa metafora di persona appagata, gli “ingenierini appena schiusi, tutti spichínglis e tutti con la barba” raccontano il nuovo che avanza, la zia con i capelli scuri ma non tinti e quella con i capelli bianchi evocano la nostalgia di una vita non vissuta appieno. Anche le comparse seppur delineate con pochi tratti di penna si impongono all’attenzione del lettore.
Levi usa senza timore termini specialistici, anzi invita il lettore a fare lo sforzo di usare la fantasia o di consultare un dizionario, riporta addirittura lo schema della formula di struttura di un composto chimico, perché tutto il libro è un atto di amore di Levi per le discipline tecniche, l’abilità manuale, ma soprattutto per le attività fatte con coscienza e passione.
Un’ode a tutti e a tutte i Faussone del mondo, orgogliosi di fare cose fatte bene, destinate a durare così da poter continuare a vivere in quanto hanno prodotto
“Ma io l’anima ce la metto in tutti i lavori, lei lo sa, anche nei più balordi, anzi, con più che sono balordi, tanto più ce la metto. Per me, ogni lavoro che incammino è come un primo amore”.
Al tecnico infatti vengono dati gli incarichi più delicati e lui orgogliosamente ricorda che
“…era giusto per quello che avevano fatto venire dall’Italia un brait gai (inglese piemontizzato, che sta per tipo brillante), che modestia a parte sarei io”
e in più di un’occasione lascia trapelare, senza però farne troppo mistero, di esser riuscito a trovare il bandolo della matassa di situazioni difficili al posto di persone che avrebbero dovuto essere più titolate nella soluzione di problemi tecnici.
Questo volume, che è il primo di fantasia di Levi, potrebbe servire come spunto per una riflessione più che mai attuale. La nostra è la cultura dell’usa e getta: dell’elettrodomestico fatto in modo che duri solo un certo numero di anni, del nuovo sistema operativo che rende inutilizzabile un cellulare quasi nuovo, del vestito che non va più di moda la stagione seguente. Il consumo di risorse per il pianeta è insostenibile, ma non bastasse questo, l’impegno lavorativo è dedicato a creare un bene che già si sa, mentre lo si produce, che non potrà né dovrà durare nel tempo. Non è quindi richiesta una particolare professionalità per produrre oggetti o servizi che non hanno necessità di essere solidi, per produrre quantitativi e non qualità, un lavoratore vale l’altro.
Si può avere rispetto per un tale prodotto? E di conseguenza si può avere rispetto, cura, amore del proprio incarico e dignità per noi stessi?
In un momento delicato come quello che stiamo vivendo, che ha portato in luce fragilità e vizi del nostro sistema economico e sociale, potremmo cominciare a interrogarci su come desideriamo sia il nostro futuro, magari ragionando sull’ipotesi che ci sottopone l’autore e pretendere di poter fare il proprio mestiere con coscienza, non per essere moderni schiavi, ma anzi per ottenere rispetto, riconoscimento e per sentirsi liberi
“…forse il tipo di libertà più accessibile, più goduto soggettivamente, e più utile al consorzio umano, coincide con l’essere competenti nel proprio lavoro, e quindi nel provare piacere a svolgerlo”
E Levi, sopravvissuto allo sterminio dei campi di concentramento, conosceva bene il valore della parola libertà.