La tragicità di due guerre, la Shoah con i suoi milioni di sterminati, possono incidere sulla Storia umana e non su quella della cultura, che non può morire e che deve sagomarsi agli eventi per dare anche speranza, oltre che continuità. La memoria salva gli scempi e si salverà con l’arte, quando anche l’ultimo dei testimoni ci avrà lasciato. Perché nel suo percorso verso il futuro e verso le generazioni a venire può raccogliere le pagine più atroci della storia umana, tramandandole.
Queste parole di Salvatore Trapani, tratte dal suo saggio “Di fronte alla Shoah. Arte fra testimonianza ed empatia”, uscito nel 2022 per corsiero editore, rappresentano, a mio parere, una sintesi chiara ed efficace di ciò che significa “fare arte”, in ogni tempo e luogo.
In quest’opera viene esaminata la produzione artistica nata all’interno dei campi di concentramento, presentando opere di Felix Naussbaum, Boris Taslitzky e Jea-Paul Laurens, oltre che quella di artisti successivi, che pur non avendo vissuto in prima persona l’atroce esperienza della Shoah si sono dedicati, con la loro arte, alla diffusione della memoria oltre le testimonianze dirette di chi allora c’era. Si tratta di Aldo Sergio, Santiago Ydanez, Gabriele Arruzzo, Giorgio Ortona, Zbigniew Libera, Alan Schechner, Shimon Attie.
Gli artisti internati fecero uso dei materiali più disparati, pur di avere un supporto su cui realizzare le loro opere, si trattasse anche di pezzi di carbone o resti di legno bruciato, comprati nel mercato nero del campo, al posto di un utensile o di un pasto. Era severamente vietato “testimoniare” come si svolgeva la vita all’interno dei campi, riprodurre ciò che la crudele organizzazione nazista aveva costruito. Pur di continuare a esprimersi, questi artisti scrissero canzoni e poesie, crearono migliaia di disegni e oggetti fatti a mano o intagliati, nascondendo con attenzione e nei luoghi più impensati questo loro “tesoro” che “fotografava” le atrocità del sistema concentrazionario.
Lo stile espositivo e argomentativo di Trapani è diretto, chiaro, sintetico e allo stesso tempo ricco di suggestioni, suscitando nel lettore il desiderio di continuare a documentarsi sulla storia dell’arte nata nelle situazioni dove non esiste la libertà, soprattutto quella di esprimere il proprio mondo interiore. L’autore, con la sua scrittura che definirei “empatica”, riesce a far entrare anche i “non addetti ai lavori” nel cuore del tema trattato, che secondo me potrebbe essere rappresentato con un’immagine: la luce dell’arte che continua a brillare dove c’è l’inferno, come in un lager nazista.
Salvatore Trapani vive a Berlino dal 1998. Si occupa di memoria storica, arti visive e Gender Equality, cooperando come formatore per il Memoriale per gli Ebrei assassinati d’Europa a Berlino, per il Memoriale dell’ex campo di concentramento femminile di Ravensbruck e per l’Istituto per la Storia della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Reggio Emilia.