Perché raccontare il carcere alle donne e agli uomini liberi? Perché è necessario ricordare che il carcere è il luogo dove si gioca la credibilità morale di un’intera società. E proprio quando si alzano muri e si allestiscono campi di prigionia anche per chi scappa dalla guerra e dalla fame, serve ricordare che la chiave di una maggiore sicurezza non è quella che chiude una cella, ma quella dell’inclusione, della rieducazione, del reinserimento sociale come indica la Costituzione.
Scritto a quattro mani da una sociologa del dipartimento delle dipendenze patologiche della Asl di Taranto, Anna Paola Lacatena, e dal comandante del reparto della polizia penitenziaria della casa circondariale di Taranto, Giovanni Lamarca, Reclusi. Il carcere raccontato alle donne e agli uomini liberi (Carocci, Roma, 2017) rappresenta una guida al mondo della detenzione in Italia. «Un libro – scrivono il magistrato Nicola Gratteri e il giornalista Antonio Nicaso nella prefazione – che coniuga con grande efficacia lo studio scientifico della società con il lavoro quotidiano della polizia penitenziaria» dando voce anche ai detenuti le cui «lettere, istanze… diventano materiale di studio, di confronto, verso cui orientare l’attenzione del lettore».
Destinato agli addetti ai lavori, agli studenti e a quanti vogliono andare oltre i luoghi comuni della fiction, Reclusi viene a colmare un vuoto nello spazio di riflessione sul sistema carcerario italiano, offrendone per la prima volta una trattazione completa e sistemica. Non una questione – sia essa la sessualità o il lavoro, il reinserimento o la disciplina – viene tralasciata. È l’intera struttura ad essere presa in esame insieme al sentire dei suoi protagonisti. Offrendo una lettura libera da luoghi comuni e da preconcetti ideologici anche degli spazi più bui e meno conosciuti. E costruendo un dialogato tra scienze sociali, mondo della giustizia e detenuti nel quale a ciascuno vengono riconosciuti un ruolo, un sapere e una dignità. Compreso il diritto di sorridere, di ringraziare, di sviluppare umanità e pensiero critico.
Gli autori non inseguono verità assolute. Ma suggeriscono domande, provano a insinuare dubbi e certamente certificano la necessità di un confronto.
Di fatto il carcere non è solo un’istituzione totale con l’obiettivo più o meno manifesto di sanzionare gli individui che hanno commesso un reato, attraverso la detenzione in un luogo chiuso e la limitazione delle libertà personali. Ma fino a che punto riesce ad assolvere all’altro compito che la Costituzione gli assegna? quello della riabilitazione?
Le pene, secondo l’articolo 27 della carta costituzionale «non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». Anche la legge sull’ordinamento penitenziario (numero 354 del 26 luglio 1975) ribadisce che «il trattamento penitenziario deve essere conforme a umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona» (articolo 1). Reclusi prende atto della distanza che corre tra principi e realtà, dà conto dei più recenti interventi compiuti a livello normativo (anche sulla spinta della condanna all’Italia da parte della Corte europea dell’uomo con la «sentenza Torreggiani» del 2013), ma allo stesso tempo fissa il concetto che ogni istituzione totale non può restare «una sorta di mare morto» (Erving Goffman), che non può e non deve essere solo il luogo dell’inattività e del tempo vuoto che pongono gli internati alla continua ricerca di attività di rimozione. Per voce degli autori e ancor più intensamente per voce dei detenuti, dal libro emerge che carcere non è un destino ineluttabile, condanna senza fine, esclusivamente pena. Poiché prigionizzare rischia di rappresentare l’esatto opposto di riabilitare se a tutto questo, da donne e uomini liberi, accordiamo esclusivamente indifferenza.
L’attuale, generalizzato clima sociale di insicurezza pesa invece fortemente nell’attribuire al carcere la sola funzione punitiva. Per una delle voci più rappresentative della sociologia contemporanea, Zygmunt Bauman, le nuove prigioni sono contenitori chiamati ad assicurare la completa immobilizzazione degli esclusi dal centro del sistema sociale. Tutto ciò che interessa sembra essere che i reclusi siano lì immobili, come i loro corpi. Il carcere del mondo globale finisce così per aprirsi alle stesse regole della globalizzazione.
Se chi sta fuori il più delle volte si impone di non porsi la questione, chi sta dentro spesso reagisce con rabbia verso quel corpo che non può muovere all’interno dell’istituzione totale, mai tanto ben rappresentata metaforicamente dai pochi metri quadri di una cella. Invece, affinché il processo di riabilitazione si compia è quanto mai necessario tenere vivo il contatto tra il detenuto e la società esterna, quale fondamento irrinunciabile della piena risocializzazione, intesa come stadio finale del processo rieducativo.
Ed è proprio la conoscenza l’obiettivo di Lacatena e Lamarca. Perché non c’è azione più liberatoria di quella mossa dal desiderio-bisogno di conoscere.
E non è una questione di sbarre.