
Vecchi graffiti, vecchi manifesti di lotta, scritte sui muri a ricordare che il popolo vincerà. E un telo su cui è proiettato la frase cardine dello spettacolo al Teatro Argentina di Roma: Ho paura torero (tengo miedo torero, il ritornello di una famosa canzone di Lola Flores). Il pubblico viene proiettato immediatamente nella dittatura cilena di Pinochet e non appena le luci si spengono, sulle immagini del dittatore viene diffuso l’audio dell’ultimo comunicato del presidente Salvador Allende, morto nel giorno del golpe dell’11 settembre 1973 in circostanze mai del tutto chiarite.
L’opera teatrale è la trasposizione dell’omonimo romanzo di Pedro Lemebel, un libro cult in Cile, amato e tradotto in tutto il mondo (in Italia è uscito nel 2021 per i tipi di Marcos y Marcos). Siamo nella primavera del 1986 a Santiago del Cile. Protagonista della storia è la Fata dell’Angolo, travestito passionale e canterino, sartina dei quartieri alti. Conosce lo studente Carlos, militante del Fronte patriottico Manuel Rodríguez, a caccia di un nascondiglio per le sue riunioni clandestine. Per amore, la Fata offre al ragazzo la propria soffitta. Per amore, accetta le mezze verità di Carlos, gli incarichi rischiosi necessari per la causa. Assillato da una moglie logorroica, tormentato da incubi d’infanzia, Pinochet va e viene dal proprio ‘retiro’ di Cajón del Maipo, che domina Santiago dall’alto. Finché un giorno, lungo la strada rovente che scende verso la capitale, la sua pista si incrocia drammaticamente con quella di Carlos. Questo di Lemebel, è il suo unico romanzo, potente, emozionante, straziante. Pedro Lemebel si espose in prima persona nell’opposizione a Pinochet, restando in Cile durante la dittatura, e non esitò in seguito a denunciare le menzogne della democrazia: divenne un simbolo internazionale della liberazione omosessuale. Morì a Santiago il 23 gennaio 2015. Ai suoi funerali, al rullo dei tamburi danzò il popolo latino che tanto lo amava.
Bellissima la trasposizione teatrale, grazie all’adattamento di Alejandro Tantanian e la regia di Claudio Longhi. Le emozioni restano intatte per ben tre ore di spettacolo. Le prime note musicali sono quelle di un bolero (Reloj no marques las horas) e il sangue di noi spettatori si scioglie al ritmo delle malinconiche melodie latinoamericane, che segnano l’incedere degli eventi. Il misero appartamento della Fata dell’Angolo (nei panni di uno strepitoso Lino Guanciale) è un viavai di studenti militanti, un continuo trasloco di casse misteriose, che in un perfetto gioco di specchi, porte scorrevoli e travestitismo entrano nella vita della protagonista. Fuori c’è la dittatura, la Fata non abbandona mai la sua radio, si sintonizza su canzoni struggenti, lenisce il dolore di una vita ai margini con le note che riempiono l’aria del quartiere. Carlos (un solido Francesco Centorame) stravolge le sue abitudini e le giornate corrono verso un amore impossibile.
La poesia che si ascolta tra le pagine del romanzo risuona anche sul palcoscenico grazie alla scelta del linguaggio. I protagonisti alternano i dialoghi alla terza persona. Parlano di sé in terza persona, riproducendo lo stile letterario del romanzo. È un po’ faticoso entrare in questa commistione di stili, ma a un certo punto si accende qualcosa e la dolcezza delle parole cattura il pubblico fino a desiderarne di più, fino a entrare nelle viscere dei personaggi, nella loro malinconica storia di oppressione in una dittatura fascista e patriarcale, dove chi non si conforma alle regole del capo è feccia da eliminare.
L’ossessione degli omosessuali agita l’animo di Pinochet, sempre sdraiato su una poltrona della sua dimora di campagna, alle prese con una moglie querula che detta legge, lui un aguzzino tanto violento quanto debole nelle relazioni umane. Il secondo livello della rappresentazione si concentra su questa coppia e sui loro capricci da potenti, vacui e pericolosi, svelti a inseguire i simboli del potere, incapaci di qualsiasi empatia con il resto del mondo.
Accanto alla Fata dell’Angolo ci sono gli abitanti del quartiere, dove l’umanità diventa corpo, dove la solidarietà si respira dalle finestre aperte sulla primavera. E non importa se il pettegolezzo è sempre in agguato: l’agognata libertà dal tiranno li unisce nel tentativo di trascorrere giornate normali. La Fata esce di casa per consegnare i lavori di sarta e per andare a trovare La Rana e La Lupa, amiche e sodali, anche loro vittime dell’emarginazione, personaggi che sembrano usciti da un film di Almodóvar.
Sullo sfondo ancora l’amore contorto e assurdo tra la Fata e Carlos in un flusso di dolcezza che avvolge entrambi. La Fata conosce il vero motivo per cui Carlos ha bisogno di lei e del suo appartamento, soffre dei suoi continui “poi ti spiego, poi ti spiego, poi ti spiego”, ma non reagisce, non può reagire davanti alla fresca bocca dello studente e a quegli occhi che sanno di cordigliera e di oceano. Carlos a poco a poco si abitua alla presenza di lei e nei rari momenti in cui si abbandona all’irrazionalità confessa alla Fata uno dei suoi segreti, quando era tredicenne e insieme a un coetaneo si ritrovarono nudi nel fiume sotto il sole e la sabbia calda, il desiderio sessuale che si impossessò dei loro corpi maschi.
Sempre i boleri più struggenti ad accompagnare le svolte narrative. In quest’opera teatrale c’è lo spazio per divertirsi, per soffrire, per ridere, per piangere, per emozionarsi, per lottare, per fare il tifo per la libertà di noi essere umani che non ci meritiamo l’oppressione di gente oscena e violenta. E insieme alla musica, la proiezione di video di gente scesa in strada in quella primavera di scontri del 1986 a Santiago, e di tramonti e di albe a suggellare il patto di sangue tra gli oppressi del mondo.
I brividi sulla pelle durante l’ultimo incontro tra la Fata dell’Angolo e Carlos. Il loro amore assurdo, impossibile, si fa più vicino. L’attentato a Pinochet, organizzato dal Fronte patriottico Manuel Rodríguez, è fallito. È l’ora di lasciare il Cile per Carlos, è l’ora della lotta per la Fata. Carlos le chiede di andare con lui a Cuba e nella risposta della Fata dell’Angolo prima di lasciarsi, si concentra l’essenza della loro relazione: ci siamo incontrati all’incrocio di due storie che hanno fatto appena in tempo a stringersi la mano nel mezzo degli eventi. E quello che non è successo qui, non può accadere in nessuna parte del mondo.
di Pedro Lemebel
traduzione di M.L. Cortaldo e Giuseppe Mainolfi
trasposizione teatrale Alejandro Tantanian
regia Claudio Longhi
dramaturg Lino Guanciale
con Daniele Cavone Felicioni, Francesco Centorame
Michele Dell’Utri, Lino Guanciale, Diana Manea, Mario Pirrello, Sara Putignano, Giulia Trivero
scene Guia Buzzi
costumi Gianluca Sbicca
luci Max Mugnai
visual design Riccardo Frati
travestimenti musicali a cura di Davide Fasulo
assistente alla regia Giulia Sangiorgio
produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
Foto © Masiar Pasquali
Visto per voi al Teatro Argentina di Roma l’8 aprile 2025