“Forse io, Klaus e Louisa vinceremo insieme l’ultima battaglia delle nostre guerre preziose, sfonderemo il silenzio a colpi di lancia, brandiremo in tre uno scudo comune. Poi livelleremo le macerie, in famiglia. La nostra sorellina ci sorriderà da dietro la finestra, sola e trasparente nella grande Casa fredda”.
Cosa succede quando rimaniamo così attaccati a un passato che non c’è più? Quando la casa non è più casa ma diventa una gabbia dalla quale non vogliamo uscire?
In “Le guerre preziose” abbiamo la protagonista, una donna anziana, ossessionata dai momenti felici della sua infanzia, che decide di passare tutta la vita nella grande casa di famiglia, associandola a un’epoca piena di gioia. Un luogo che la rendeva spensierata e l’ha legata a un ricordo quasi ossessivo di un tempo perfetto dal quale non bisogna crescere, uscirne, lasciare entrare quelli che possono essere i nuovi bambini che corrono per quelle stanze, perché tutto questo è vissuto con rivalità e gelosia da parte della donna, nei confronti della sua gioventù e di quella Casa enorme. L’ossessivo ricordo dell’infanzia e di come tutto era perfetto da bambini, l’ha portata a scacciare chiunque cercasse di entrare in quel legame, respingendo con violenza qualsiasi incursione. Mi ci sono ritrovato molto nel concetto di “casa”, nella ricerca dolorosa dei luoghi e dei giochi d’infanzia e la delusione nel ritrovare tutto cambiato e i bambini di allora cresciuti. Crescere vuol dire anche questo, capire che quello che cerchi non lo ritrovi più fuori, lo trovi dentro di te, nei tuoi luoghi di te bambino, e che la bellezza di ogni età la puoi sempre trovare. Non sono riuscito a trattenere una lacrima alla fine, davanti a questa anziana signora che stringe a sé le chiavi, arresa a vivere questo ennesimo lutto nel lasciarsi dietro di sé la casa e con lei tutti i fantasmi.