“E io scrivo,
ostinatamente scrivo,
sulla foschia dei vetri,
sopra fogli invisibili
di libercoli eterni.”
In queste parole, tratte dalla poesia che dà il titolo alla silloge “Il vagone bianco” di Anna Raviglione, ho scorto il senso ultimo, l’essenza più intima che genera la voglia di continuare a scrivere in tutti coloro che credono nell’esistenza di mondi immaginati e fondati sulla potenza evocatrice della parola.
I 29 sonetti e i 30 componimenti in versi sciolti e liberi di questa raccolta sono il frutto di un lavoro di “labor limae” meticoloso, raffinato, profondo, che arriva ad esprimere il senso vero del termine greco “poiesis”, riuscire a fare dal nulla. Lo spazio metrico del sonetto segue un ritmo regolare, che non permette sbavature o incertezze sintattiche e lessicali. Raviglione dimostra una vera padronanza della misura dell’endecasillabo, unita alla capacità di saper variare il gioco delle rime in quattordici versi, come se stesse disponendo le note musicali sul pentagramma. Ne nasce una melodia fatta di significanti, suoni e temi mescolati in un amalgama perfettamente riuscito all’interno della cornice della quartina e della terzina. Raramente ho letto testi poetici come questi, in cui forma e contenuto si fondono in modo armonioso e fluido, rispecchiandosi a vicenda come se fossero due piani riflettenti che si guardano mentre si dispongono sul foglio bianco.
Raviglione, nel percorso di ricerca della parola, ha scavato fino all’anima delle cose, degli elementi naturali, delle vicende, delle persone che prendono vita dentro ai suoi versi. Sono molteplici i bagliori che sorgono improvvisi nella mente “assaporando” queste poesie, perché innumerevoli sono i luoghi del mondo terreno e spirituale che permettono di salire sul “vagone bianco” che conduce in alto, verso l’infinito. Mi ha colpito l’incipit e il finale del testo “Gli occhi della primavera”, nella sezione dei componimenti in versi sciolti, intitolata “Pensieri dell’anima”:
“E cadde a terra
il cielo
quando vide gli occhi
della primavera.
[…]
Tutto fu Uno
e solo un suono si diffuse,
quello dell’amore.”
Le figure retoriche entrano in punta di piedi, senza appesantire mai il libero fluire delle immagini, conferendo un colore più intenso, un’aria più cristallina a un paesaggio trasfigurato nella sua quotidianità dal dispiegarsi delle forze atmosferiche, come le metafore nel sonetto “Pesche di ghiaccio”:
“Pesche di ghiaccio a mitragliare il cielo,
e si sgomenta il cuore imbizzarrito,
quasi lo specchio d’un mondo in attrito
che nell’ansare sopravvive al pelo.”
Non si può non pensare alla poetica del “fanciullino” di Pascoli, per descrivere la capacità di Raviglione di raccontare con lo stesso slancio evocativo il piccolo e il grande, ma anche la forza di resistenza della particella infinitesimale, come bene seppe rendere Emily Dickinson in uno dei suoi versi più famosi, “La Goccia, che combatte nel Mare”.
Un sentore di aria di primavera è ciò che percepisco “espandersi” in me dopo la lettura delle poesie del “Vagone bianco”, la primavera intesa come la stagione della follia e dei nuovi inizi, quando “Proserpina lieve / vede piovere sulle erbe”, come si legge nella poesia di Alda Merini “Sono nata il ventuno a primavera”.
All’interno del libro i testi poetici si alternano a immagini paesaggistiche tratte dall’archivio personale dell’autrice. Ho apprezzato questa scelta editoriale, che unisce alla carica espressiva delle parole il linguaggio iconico e immediato dello scatto fotografico.