Erano anni che desideravo accostarmi alla narrativa di Alice Munro, vincitrice di tutti i maggiori premi letterari e considerata un’autentica maestra nell’arte del racconto (forma letteraria che adoro). L’occasione buona mi si è presentata grazie a un volumetto – pubblicato qualche anno fa in supplemento al Sole 24 Ore – che contiene due racconti dell’autrice canadese: «Il ponte galleggiante» e «Ortiche». Definire «deludente» la mia prima impressione è un pietoso eufemismo. Le due storie – rigorosamente prive di trama – vivono di spunti desolati, situazioni patetiche, personaggi tristissimi e interminabili descrizioni (persino l’odore di un sandalo di plastica a contatto con i piedi sudati della protagonista ci viene descritto con indesiderata dovizia di particolari). Di cosa si parla nei due racconti? Di malattie, di scritte sui muri di persone sole e arrabbiate con la vita, di una donna che fa la chemio, di un uomo che lavora con giovani detenuti, di persone emarginate che vivono in desolanti bidonville, di un uomo che durante una manovra stira il figlioletto con la propria auto… probabilmente, se Il Sole 24 Ore avesse deciso di inserire un terzo racconto, la Munro ci avrebbe “deliziato” con le vicende di famiglie disfunzionali, nonni in carrozzina, genitori separati, figlioletti con bromidrosi plantare, cani affetti da cimurro (…) Che fare? Concedo una seconda chance a colei che Franzen ha definito «La più grande narratrice vivente del Nord America» oppure prendo atto che la narrativa di Alice Munro fa a pugni con la mia sensibilità estetica? Forse è meglio che lasci le opere della Munro all’Accademia Svedese e agli Adelphiani, e che torni a godere con le storie di Roald Dahl, King, Buzzati, Camilleri…