Il suo nome era Lorenzo Perrone e per sei mesi rischiò la vita per portare a Primo Levi una gavetta di zuppa. In “Se questo è un uomo” si legge: “Credo che proprio a Lorenzo debbo di essere vivo oggi”. Nel suo ultimo lavoro “Un uomo di poche parole. Storia di Lorenzo, che salvò Primo”, lo storico Carlo Greppi racconta l’intreccio di vicende che coinvolsero due vite che si incontrarono in una fredda giornata del 1944 ad Auschwitz.
Primo Levi fu salvato dalle condizioni terribili del lager grazie all’aiuto di un uomo povero, scontroso, che insieme ad altri operai si recava dentro al campo per lavorare. Lorenzo era stato inquadrato tra i lavoratori ad Auschwitz della ditta “G. Beotti” e svolgeva la mansione di muratore. Alcolizzato, attaccabrighe, quest’uomo, che dopo la fine della guerra visse ai margini della società fino alla morte avvenuta nel 1952, potrebbe essere definito “una pietra di scarto”. Ma il suo amico Primo non lo dimenticò mai e, mentre dentro al lager nazista era considerato solo un “pezzo”, niente più di un numero tatuato sul braccio, vide in quel taciturno muratore piemontese di Fossano un’autentica “testata d’angolo” di umanità che lo strappò alla morte per malnutrizione.
Durante il loro primo incontro il quarantenne Perrone riprende a male parole il prigioniero Levi, un ragazzo mingherlino di ventiquattro anni che ha appena rovesciato il secchio pieno di malta con cui doveva essere terminata la ricostruzione di un muro della fabbrica di gomma della Buna, crollato in seguito a un bombardamento alleato. Mentre la malta rovesciata da Levi si stava indurendo tra i calcinacci le parole di Lorenzo, in dialetto piemontese, furono poche e taglienti: “Oh già, si capisce, con gente come questa”. Intendeva riferirsi alla categoria degli schiavi al livello più basso del campo di concentramento, come gli ebrei, o alla classe sociale dei borghesi, il ceto a cui apparteneva Levi prima della deportazione?
E’ lo stesso Levi a riferire questa frase, che in qualsiasi modo la si voglia interpretare trasmette disprezzo, forse anche commiserazione nei confronti del destinatario. Ad Auschwitz è il muratore semianalfabeta di Fossano a trovarsi in una posizione di superiorità rispetto al giovane borghese laureato in chimica di Torino. Il primo, nonostante le dure condizioni in cui lavora è libero, senza rischio di morte se non si mette deliberatamente in cerca di problemi; il secondo è uno schiavo destinato a morire, se ogni giorno non escogita il modo per sopravvivere.
Lorenzo, dopo pochi giorni dal loro primo incontro, si presentò davanti a Primo con la sua gavetta piena di zuppa e gliela porse, dicendogli di riportagliela indietro, vuota, entro la fine della giornata.
Questo saggio è il frutto di un rigoroso lavoro di ricerca sulle tracce di un uomo umile, pronto a menare le mani, senza istruzione, che non si tirò indietro di fronte all’ingiustizia e alla violenza di Auschwitz, e rischiando la sua esistenza permise ad altri di continuare a vivere.
A questo proposito sono emblematiche le parole di Carlo Greppi tratte da un passo del libro a pag. 79: “Appare dunque evidente come questa sia una storia universale, che trascende nazionalità e confini, andando a interrogare l’essenza stessa dell’animo umano”.
“Un uomo di poche parole. Storia di Lorenzo, che salvò Primo” è un saggio che si legge tutto d’un fiato come un romanzo. Bravo è stato l’autore, nel saper creare una scrittura aderente alle informazioni desunte dalle fonti storiche, ma al contempo piena di passione per la narrazione di una vicenda umana rimasta semisconosciuta fino alla pubblicazione di questo lavoro.