“Amal avrebbe voluto guardare meglio negli occhi del soldato, ma la bocca del fucile automatico contro la fronte non glielo permetteva. Provo un’inspiegabile serenità. La morte, nella sua certezza, sta esigendo la dovuta quiete e il dovuto rispetto prima di prendermi per mano.
Ma il soldato non spara. So che ha già ucciso. Sa che lo so. Ma non ha mai visto la sua vittima in volto. I miei occhi, dolci d’amore materno e della calma di una donna morta, lo opprimono insieme al potere che ha tra le mani. Penso che si metterà a piangere. Non ora. Più tardi. Quando sarà faccia a faccia con i suoi sogni e il suo futuro. Sono triste per lui”.
Io non ho letto questo libro. Io ho vissuto tra le pagine di questo libro un pezzo di storia che va dal 1941 al 2002. Attraversa una vita intera. Sono lì, tra i colori di quella terra meravigliosa che è la Palestina, i colori delle rose e del tramonto. Sono li, in mezzo ai bambini uccisi prima del tempo, in mezzo alle polveri, in mezzo a uomini svuotati, a madri di pietra per quanto il loro cuore ha dovuto sopportare. Vivo immagini molto simili a quelle che oggi ci arrivano attraverso vari canali aggiornandoci quotidianamente sulla tragedia e il genocidio che è in atto da più di tre settimane. Attraverso queste pagine prendo ancora più consapevolezza (ho bisogno di consapevolezza) della situazione devastante del popolo palestinese, quello che – non so perché – il mondo intero finge di non vedere.
Sono a Jenin, in mezzo ai soldati israeliani, in mezzo ai check point, in mezzo alla violenza inaudita, ai bombardamenti e alla paura perenne. Sono a Jenin e non so se domani perderò qualcuno della mia famiglia o se rientreranno tutti a casa. Mi chiedo, quanto dolore possa sopportare un essere umano prima di anestetizzarsi completamente, e possa ancora volgere lo sguardo al bene?
Ho scattato la foto mettendo il libro sopra la mia kefiah. Un regalo che mi era stato portato direttamente da quelle terre. Per me è un simbolo che tengo stretto nella speranza che non ci siano più bambini in preda a tremolii causati dalle bombe, occhi spalancati e visi insanguinati. Tengo stretto sperando che le madri possano finalmente non dover più piangere i loro figli. Tengo stretto sperando nella pace tra due popolazioni che ne hanno patite tante. Un simbolo che tengo stretto nella speranza che la Palestina sia finalmente libera.