Il prossimo 24 giugno, come da tradizione, sarà dedicato alla festa di San Giovanni Battista, con un susseguirsi di celebrazioni legate al solstizio d’estate, consumate nel corso di una notte ricordata come la notte di San Giovanni; in epoca precristiana questa data coincideva con l’inizio del periodo più luminoso e prospero dell’anno, dando luogo a rituali propiziatori e a cerimonie di ringraziamento.
<< Li hanno fatti quest’anno i falò? – chiesi a Cinto. Noi li facevamo sempre. La notte di San Giovanni tutta la collina era accesa. Poca roba, – disse lui. – Lo fanno grosso alla Stazione, ma di qui non si vede. Il Piola dice che una volta ci bruciavano delle fascine. Chissà perché mai, – dissi, – si fanno questi fuochi. Si vede che fa bene alle campagne, – disse Cinto, – le ingrassa>>. (Cesare Pavese, La luna e i falò, 1949)
Questo perché il periodo legato al solstizio d’estate è il momento dell’anno maggiormente carico di magia, in cui leggenda, sortilegio e credo si mescolano per dar vita a quella sacralità che, nelle tradizioni precristiane, infondeva forza e vigore a rituali tipici delle zone rurali, all’interno delle quali si mantengono vivi ancora oggi gli usi e i costumi propri della società pastorale e contadina.
Il solstitium cade il 21 giugno, il giorno più lungo dell’anno, in cui il sole raggiunge la massima intensità e fin dall’antichità è stato celebrato con balli, feste e falò. In concomitanza, maturano i primi raccolti e inizia la graduale discesa del sole verso l’oscurità; da noi, in Italia, i riti si celebrano la notte di San Giovanni Battista, attraverso una sorta di parallelismo che si viene a creare tra il calendario cristiano con quello pagano. La festa di San Giovanni infatti è celebrata il 24 giugno, quando il sole, superato il punto del solstizio, comincia a decrescere impercettibilmente sull’orizzonte, dando origine alla notte più breve dell’anno, LA NOTTE DI SAN GIOVANNI, in cui l’attesa del sorgere del sole è propiziata dai falò accesi sulle colline, poiché con il fuoco, ricavato dall’ardere della legna di quercia, si mettono in fuga le tenebre e con essa gli spiriti maligni in un continuo susseguirsi di prodigi.
“Le erbe di San Giovanni” di Maria Alinda Bonacci Brunamonti
Le cimette io cogliea della mortella
spigo, timo, cedrina e vigorosa
menta, con rosmarino e nipitella
foglie di noce e qualche ultima rosa.
E tutta, entro una conca, l’odorosa
boccetta esposta alla Diana stella
con limpid’acqua, v’infondea gelosa
le spiche d’aglio e il pan, la nostra ancella.
Io ne ridea e le movea domanda:
perché dell’aglio col maligno odore
offender l’aromatica lavanda?
Ella, facendo il segno della croce:
l’aglio di San Giovanni ha gran valore,
né della strega or più l’occhio gli nuoce.
In questo momento dell’anno, la terra si risveglia, la natura è al massimo del suo rigoglio: allo spuntare dei primi raggi del sole i fiori brillano bagnati di rugiada, come piccole fiaccole e un tempo, proprio al sorgere del sole, si sceglievano e si raccoglievano i mazzetti di fiori per essere benedetti in chiesa dal sacerdote.
E allora si festeggia Litha, una festa pagana, in cui l’esplosione della vita si rinnova anche attraverso la danza, uno dei modi più antichi al mondo di celebrare e di fare rituali. Ѐ la festa dell’abbondanza, della crescita interiore, è il momento di raccogliere ciò che abbiamo seminato nella nostra vita, non tanto a livello materiale, quanto sul piano spirituale.
“SAN GIOVANNI”, poesia di Giovanni Pascoli tratta dall’ opera “Le canzoni di re Enzio” (1908-1909)
Col manipello delle spighe in capo
torna la schiava. Tra i capelli neri
ha paglie e reste e foglie di rosette
che paion ali rosse di farfalle.
“Va’, Flor d’uliva, va’ con le mie figlie,
monta sul pero, monta sul ciriegio.
Domani viene San Zuanne e vuole
le prime pere e l’ultime ciriegie.
Le porterete in piazza di Bologna
coperte con le pampane di vite”.
“Va’, Flor d’uliva, va’ con le mie nuore,
cava nell’orto l’aglio e le cipolle.
Per San Zuanne chi non compra l’aglio,
per tutto l’anno non arà guadagno.
Prendi la maggiorana e petroselli,
la camomilla e spighe di lavanda”.
“Va’, Flor d’uliva, va’ con la cognata
per medesine e benedizioni:
foglie di nose e flori di pilatro,
vesiche d’olmo e fiori di sambuco.
Nell’acquastrino prendi le ramelle
del salcio d’acqua detto l’agnocasto”.
Va Flor d’uliva, torna va ritorna,
ma lieta in cuore, che vedrà domani,
vedrà Bologna e le sue grandi torri;
e canta… E per le spalle a mo’ de l’onde
scorrèn le longhe ciocche blonde…
Domani è il Santo delle innamorate.
Siedono su le panche le pulzelle.
Son li amadori a’ loro piè col mento
sopra le mani, e i gomiti sull’aia.
Gli occhi guardano, palpitano i cuori:
palpitano le lucciole nel buio.
Parlano e dànno in lievi risa acute;
fanno le rane prova di cantare.
Ma Flor d’uliva siede in terra e intreccia
le lunghe reste; ch’ella non ha drudo.
Le code intreccia, e mette, ad ogni volta
data alle code, un capo d’aglio nuovo;
ma gode in cuore, ché vedrà le torri,
che in una torre c’è una caiba, e, dentro,
re Falconello, le catene d’oro,
i ceppi d’oro, anche i cavelli d’oro.
I lunghi pioppi scotono le vette:
son li aierini che vi fan la danza.
I barbagianni soffiano dai buchi:
son le versiere che ansimano andando.
La guazza cade: è ora di partire.
Partono i drudi, per non far incontri.
Cade la guazza, che fa bene e male.
Rincasan ora le pulzelle; ancora
la schiava è là, sola con li aierini
che si dondolano… Oi bel lusignolo!
canticchia: torna nel meo broilo!…
Non vanno a giro omai che le versiere;
vanno alle case dove è un lor fantino;
il lor fantino nato da sette anni
in questa notte, ch’era San Giovanni.
Chiamano all’uscio. Stesi sulle siepi
son fascie e teli, a prendere la guazza;
e li aierini passano soffiando
sui bianchi teli, sulle bianche fascie,
tremanti al soffio. Qua e là nell’aie
muoiono i fuochi crepitando appena.
È mezzanotte, l’ora che al sereno
prende virtù l’erba, la foglia, il fiore,
e l’olio chiuso nelle borse d’olmo,
e il ramo puro, il ramo d’agnocasto.
Ora il tesoro ch’è sotterra, sboccia,
fiorisce un tratto, e subito si spegne.
Ora si trova l’erba che riluce,
che fa vedere ciò che fu sepolto.
Ora si vede al lume di tre lumi
chi è lo sposo a cui dormire accanto.
Ora nei trebbi, incerte del cammino,
sostano un poco insieme le versiere.
A li aierini chiedono la strada,
e li aierini ridono. Ma ecco,
di qua di là, lente tra il sonno e piane,
ton, ton, suonano le campane.
Secondo la tradizione, è proprio durante la mezzanotte della vigilia di San Giovanni che si raccolgono le erbe ancora bagnate di rugiada, poiché posseggono virtù particolari che non avranno durante il resto dell’anno, come l’artemisia, l’iperico, il mirto, il sambuco, l’arnica, per poi legarle a mazzetti e farle seccare, quindi bruciarle negli incensieri in modo che l’ambiente sia pregno del loro profumo e delle loro vibrazioni positive. Si possono bruciare incensi di lavanda, caprifoglio, limone e glicine. E ancora la verbena, a cui viene attribuito un valore apotropaico, poiché si crede protegga chi la porta con sé da qualunque male.
“Una mezzanotte d’estate potete udire la musica / Del flauto esile e del piccolo tamburo / E vederli danzare intorno al falò”. (T.S. Eliot, East Coker).
E da qui tutta una serie di leggende, che si fondono alle tradizioni sacre e profane di un mondo magico, indissolubilmente legato alle culture dei luoghi, all’interno del quale rivivono quei rituali, tramandati da una generazione all’altra, per celebrare la terra e con essa il perpetuarsi della vita.
“A SAN GIOVANNI”, di Gabriele D’Annunzio, poesia tratta da “La figlia di Iorio“
[…]
Splendore:
Il tuo padre è a mietitura,
fratel caro; e la stella diana
s’è mirata nella falce,
nella falce che non riposa.
[…]
Ornella:
E domani è San Giovanni,
fratel caro; è San Giovanni.
Su la Plaia me ne vo’ gire,
per vedere il capo mozzo
dentro il sole, all’apparire,
per veder nel piatto d’oro
tutto il sangue ribollire.
[…]
Favetta:
Su, Vienda! Su, capo d’oro!
Guardatura di vinca pervinca!
Or si falcia alla campagna
quella spiga che ti somiglia.
Savina Trapani