A volte dimentichiamo che siamo quello che sta più in là dei vari schermi. Non siamo turisti della realtà ma gli schermi ci possono trasformare in “soggetti inattivi”, che solo osservano e non agiscono davanti alle sofferenza degli altri, senza percepire che dietro i loro occhi si nascondono paure uguali o peggiori delle nostre.
Spesso, ignoriamo la storia che nasconde ciascuna persona con la quale ci incrociamo. In greco “persona” significa “mascara” e dietro ogni maschera c’è una storia. In una società sempre più connessa, spesso dimentichiamo che tra la società che racchiude tutto nell’armadio e quella della costante esposizione ci sono ragioni, emozioni e sentimenti che ci sfuggono.
Susan Sontag (1933-2004) segnalò che la nostra società è inondata di immagini di dolore, che spesso sono solo utilizzate in modo superficiale e manipolatore per anestetizzarci di fronte alla sofferenza di qualsiasi natura. La cosa importante, scrive Sontag, è mostrare compassione verso le sofferenze degli altri ed avere il coraggio di comprendere le loro radici personali, sociali, economiche e strutturali. Se non ci azzardiamo a pensare alla sofferenza propria e degli altri, ci vedremo stagnanti a mantenere lo stato impuro in cui si producono le sofferenze stesse.
Mi chiedo ancora:
gli schermi mediatici hanno cambiato il modo di pensare alla sofferenza?
L’uso esagerato degli schermi (televisivi, cellulare, computer…) ha avuto un impatto significativo nelle nostre vite, riguardo alla nostra forma di pensare le emozioni, una di queste riguarda la sofferenza. Il web ci dà accesso a un’enorme quantità di testimonianze di persone che soffrono, però questo non conduce necessariamente alla sensibilità, perché “normalizza” questo tipo di immagini e rimaniamo così abituati, direi “narcotizzati”, assuefatti da tutto quello che ci viene proposto.
La realtà è che ogni volta però, ci affettano meno le immagini di dolore e sofferenza, tutto diventa simile a un film di azione e fiction.
Questo sovraccarico di informazioni può comportare un’assenza di sensibilità, portando a una mancanza di empatia verso la sofferenza degli altri. E se questo non bastasse, la forma in cui si espone la sofferenza negli schermi mediatici attraverso serial, film o telegiornali, che ci bombardano con notizie di ogni sorta, influisce, anche, sulla nostra forma di pensare la sofferenza.
La sofferenza viene esposta, “venduta” come un prodotto di intrattenimento. Viviamo nella società dello spettacolo e della simulazione.
Il filosofo Jean Baudrillard nel trattato “Simulacri e simulazione” denunciò il culto contemporaneo dell’immagine, che si inserisce in quello che lui chiamò “cultura della simulazione”: in questi postulati considerava che si stava rimpiazzando la realtà autentica a beneficio di un falso e superficiale scenario che ci allontana dal compromesso con il nostro mondo. Viviamo in una cultura dominata per immagini che sono più rilevanti della realtà stessa. La distinzione fra quello che è reale e quello che è finto è svanita. Siamo immersi in un mondo di simulacri, in cui le immagini e le rappresentazioni non riflettono la realtà, ma la costruiscono.
La domanda che dobbiamo ora farci è:
Quale realtà stiamo costruendo?
Nella società attuale, ha suggerito Baudrillard, parassitata dalla tecnologia, si costruisce prima una cultura della superficialità e dell’immediatezza, in cui la cosa fondamentale è l’intrattenimento e la non implicazione con quello che ci sta attorno. Come scrisse anche Guy Debord, la società dello spettacolo ha consumato qualsiasi tentativo di prendere sul serio quel che vediamo, perfino le nostre emozioni sono state trasformate in spettacolo o in strumento che risponde alle leggi del mercato.
Mi trovo in linea con il pensiero di Sontag: per stare al mondo come essere pensanti, l’attività del pensare prima ancora che si cristallizzi in contenuti particolari, non è mai contemplazione passiva ma negazione, un atto di resistenza a tutto ciò che sul pensiero vorrebbe imporsi con la forza dell’immediatezza. Pensare significa dissentire, anche se dissentire comporta conflitti.
Consigli di lettura
Credo che certe letture siano fondamentali per farci domande, una di queste è “La società dello spettacolo” di Guy Debord che non considero solo un libro cult, illuminato ma è un testo profetico, che è riuscito a cogliere la pervasività dei mass media e a predire quel dominio delle immagini mediatiche sulla realtà che solo oggi risulta così evidente in ogni aspetto della nostra vita, sempre più tendente alle virtù dell’apparire che dell’essere.