Questo romanzo del tutto autobiografico di Natalia Ginzburg esce più di 50 anni fa.
Scritto in modo fresco e incisivo, racconta la Torino ebraica e antifascista dal primo dopoguerra al secondo; un mondo in cui si muovono personalità importanti dell’intellighenzia italiana e si prepara una parte significativa della cultura politica dell’Italia degli anni Cinquanta.
Basta ricordare i nomi di alcuni personaggi che vengono raccontati nella loro vita quotidiana: Adriano Olivetti, Filippo Turati, Vittorio Foa, Giulio Einaudi, Cesare Pavese, ecc.
I caratteri sono presentati attraverso i loro modi di dire, i loro vestiti e le loro sembianze. Non si entra nel merito.
Eppure traspare una compiaciuta ammirazione per quelli che sono stati fra i maggiori protagonisti della cultura politica e della politica culturale italiana dalla Resistenza al Secondo dopoguerra.
Ma soprattutto oggi colpisce la figura del padre di Natalia.
Uomo burbero di straordinaria volontà e neurofisiologo di fama internazionale.
Giuseppe Levi nel suo laboratorio di anatomia ha formato ben tre premi Nobel: Salvatore Luria, Renato Dulbecco e Rita Levi-Montalcini.
L’Italia degli anni Sessanta sarà purtroppo dominata ancora solo dalla cultura storicistica della Resistenza, che resta sempre presente nelle pagine della Ginzburg, pur stando solo sullo sfondo. Per contro quei tre grandi, che con i loro studi in biologia hanno definitivamente modificato l’immagine dell’uomo, non compaiono neanche e la loro cultura di ben più alto spessore ha dato i suoi frutti nelle grandi università americane dove sono emigrati.
Emblematico un episodio verso la fine del libro.
Levi viene inserito nelle liste del fronte popolare PCI-PSI. Gli si chiede di fare un comizio, almeno uno. Il grande scienziato è imbarazzato. Inizia davanti a una multiforme platea affermando che la scienza è la ricerca della verità e negli Usa si fa scienza migliore che in URSS. Il pubblico lo guarda attonito, come fosse venuto da Marte. Che cosa c’entra questo con il nostro mondo fatto di tutt’altro?
Quanto si sbagliavano!
E ho paura che la Ginzburg raccontando questo aneddoto donchisciottesco non si renda conto della tragedia culturale di cui è testimonianza.
Negli anni Sessanta era già chiaro dove la cultura politica cattolica e comunista, ma in sostanza idealista e storicista ci avrebbe portato. Cioè proprio qui; in un mondo diviso di intellettualoidi infarciti di retorica e di urlatori ignoranti che inneggiano all’incompetenza.
Alcune premesse di questa situazione sono state poste proprio allora.