BUSSARE AL VUOTO
Montale e la ricerca di una luce che ancora ci illumina
Se dovessi dire una sola verità sulla vita, quale sarebbe?
Probabilmente, io, risponderei che non posso ancora dirne una. Sarebbe questa la mia verità. Farmi portatrice di un messaggio, di un’unica ed esclusiva narrazione del mio tempo mi renderebbe, ai miei stessi occhi, una peccatrice.Parto con questa riflessione personale perché mentirei se dicessi che Eugenio Montale non ha influenzato in nessun modo la mia crescita emotiva e umana negli ultimi anni, diventando una sorta di faro, una bussola preziosa e sicura. Proprio per questo, ciò che scriverò non vuol essere la parafrasi chiara e decisa di un pensiero del poeta, ma un tentativo di comprendere qualcosa che possa, come un amuleto, passare di mano in mano, contenendo in sé una domanda importante a cui, probabilmente, non sapremo mai se ci sarà una risposta.Il componimento di cui voglio parlare è tratto da “Le occasioni” (1939), una raccolta in cui la poesia sembra voltarsi ad osservare le cose con una densità tutta nuova, senza una profonda e continua interrogazione sul «male di vivere» ma focalizzandosi sulla ricerca di momenti, immagini e occasioni che si sgretolano nell’istante stesso in cui vengono colte, viste e riconosciute, diventando poi qualcos’altro. Per affrontare al meglio il messaggio finale e, al tempo stesso, avere una visione d’insieme che possa lasciare ad ognuno la possibilità di entrare nell’universo montaliano con maggior autonomia, affiancherò l’analisi del componimento scelto a vari passi tratti da “Auto da fé” (1966), una raccolta di scritti preziosi e, oserei dire, profetici.
La poesia protagonista di questo articolo si intitola “Nel parco di Caserta”, è stata scritta proprio in occasione di una visita del poeta alla reggia e si apre con l’osservazione di una scena comune. Siamo, infatti, nel giardino inglese, presso lo stagno delle ninfee. Gli occhi del poeta si posano su un cigno fiero che con i suoi movimenti crea delle piccole e grandi sfere sull’acqua, illuminate dal sole del mattino. Sempre riflessi nello stagno, il poeta menziona le cupole e le estremità della pianta d’araucaria. Fino a questo momento, perciò, la descrizione è precisa e comune, nulla che agli occhi degli altri possa passare inosservato.
Ma a condurci in un oltre indefinito e misterioso è proprio la pianta d’araucaria, i cui rami diventano braccia che allacciano chi passa, nonché tutti coloro che erano presi dall’osservazione di quella scena tranquilla e beata. Un albero che sembra quasi fare da tramite, conducendoci dalla scena serena e calma, dal locus amoenus di tutti, al cupo e isolato spazio del destino. Ecco che allora, avuta la visione, subentrano negli ultimi due versi elementi nuovi, totalmente distaccati dal contesto, quasi ermetici seppur nella più totale razionalità montaliana:
«Le nòcche delle Madri s’inaspriscono,
cercano il vuoto.»
Innanzitutto soffermiamoci sull’immagine della madre: parto col dire che la figura femminile in Montale è assai presente ed ha un ruolo molto importante: salvare dalla mediocrità. Non tanto eliminando la mediocrità stessa, cosa alquanto irreale, quanto fornendo al poeta, mediante la sua presenza, uno scudo di difesa dal mondo e, al contempo, una spinta per affrontarlo. Trovo la scelta della madre come donna, e non più un’amata, come simbolo di una ricerca ancora più autentica, qualcosa di profondo e selvaggio, quasi fosse uno strappo dal torpore, dal silenzio che non è più ormai luogo idilliaco, ma pesante turbamento.
Vorrei inoltre tener presente il passaggio dalla figura del cigno a quella, appunto, della madre. La prima ci ricorda la classicità, la fierezza, l’intoccabile bellezza che però, verso dopo verso, sembra quasi deformarsi, assumere connotati nuovi. E non si tratta di un semplice passaggio dal passato al presente, non una tranquilla accettazione del tempo nuovo e nemmeno una sua esaltazione.
«Vediamo morire molte cose, nascerne molte altre, ma ci sfugge il senso, la direzione del mutamento.» Auto da fé, p 79, “Mutazioni”
Quelle nocche, forse di una madre stanca e sfinita, non spalancano nessuna porta, ma bussano.
E chi è che bussa? Qualcuno che vuole scoprire se dall’altro lato c’è qualcosa o qualcuno, e dunque questo ci dice chiaramente una cosa: il cambiamento e la presa di coscienza di ciò che non è più, non implica sapere necessariamente dove si sta andando, significa innanzitutto conoscere dove non si è più.
« se non siamo liberi cominciamo col rendercene conto , poi vedremo se è possibile o augurabile una liberazione.» Auto da fé, p 191, “Oggi e domani”
Arriviamo allora alla chiusura, all’ultimo verso: «cercano il vuoto».
Ho sin da subito avvertito come un contrasto salvifico, un accostamento letale. Il vuoto di cui ci parla Montale potrebbe rappresentare un punto d’arrivo, un luogo in cui sostare per immergersi pienamente in una costante operazione di lucido scavo, scrostando le pareti con le unghie.Forse dopo il buio ci sarà altro buio, ma è immergendoci nel vuoto che lo scopriremo, non restando in superficie.Un altro punto di vista potrebbe suggerirci, invece, che il vuoto siamo noi stessi.Ed è allora a questo punto che il cercare si caricherebbe di un’ulteriore missione: quella di svelarci, riportarci a galla, attirandoci nella rete salvifica tramite il rumore delle nostre nocche che bussano, che Ci bussano, come a scuoterci, ad assicurarci del fatto che siamo in vita, che reagiamo, che siamo vigili affinché non ci scappi nessuna luce. Perché forse, allora, se il senso di ogni cosa ha perduto il suo significato principale, ed anche quello secondario, se ogni valore o morale può essere un’allucinazione ed ogni allucinazione cosa tangibile e concreta, se la parola ha perso la sua umanità e se alla fine siamo tutti perduti in una realtà che resta sempre la stessa, che da millenni ci inganna e ci lascia nella stessa tenebrosa caverna, ciò che resta da fare è percorrere il disincanto, attraversare l’assenza, rendersi consapevoli, trovare la propria fragile razionalità e considerarla un punto di partenza. Cercare il vuoto, sempre, costantemente, perché soltanto trovandolo, destandoci nel suo immobilismo, abbiamo forse la possibilità di scorgere una sottile e flebile luce di salvezza.
«Egli non si accorge però che quando io scrivo per gli altri non penso minimamente ai fatti miei, non mi preoccupo della mia libertà e salvezza personale (supponendo che esistano),ma vorrei che tutti fossero salvi e liberi con me.» Auto da fé, p 273, “Terzo settore”
Forse, allora, il risveglio altrui è parte del nostro, e in realtà la vera comprensione di qualcosa risiede nel saperla familiare, nell’avvertirla in qualcun altro. Probabilmente la famosa salvezza, che nessuno forse crederebbe mai per la propria vita, diventa possibile solo quando è desiderata anche dall’altro, perché questo significherebbe riconoscersi, identificarsi. Trovare qualcuno timidamente fermo a guardarti, ma soltanto dopo aver avuto il coraggio di aprire gli occhi.
Non resta che bussare, allora, a quante più porte possibili nell’attesa di una voce che provenga innanzitutto da noi stessi.