Il Medioevo. Secondo i moderni il periodo ‘buio’ per eccellenza. Roghi di libri e di persone. La notte della ragione e il trionfo della superstizione.
Eppure, secondo Benvenuto da Imola, le strade della Firenze medievale furono rischiarate da ben due lumi. Uno filosofo e l’altro poeta. Guido Cavalcanti e Dante Alighieri. Uniti fra loro da un discusso e controverso legame di amicizia di cui gli studiosi tentano ancora oggi di chiarire la natura.
Riuscendovi solo in parte.
Uno scambio di sonetti e il «principio dell’amistà» – Dante e Guido diventano amici
Quando Dante incontra Beatrice per la seconda volta non ha che diciotto anni (1283). È lui a raccontarlo nella Vita nova. Il ‘libello’ in cui raccoglie e commenta le poesie che hanno come argomento esclusivo la giovane e ignara ragazza fiorentina. Oggetto di una passione martellante che accompagna Dante persino in sogno.
Ed è proprio da un sogno che tutto ha inizio.
Da un incubo. L’Amore in persona tiene Beatrice tra le braccia e le dà da mangiare il cuore di Dante. Che, spaventato a morte, si sveglia e compone il primo sonetto della raccolta (A ciascun’alma presa e gentil core). Sonetto che il giovane poeta in erba ha l’ardire di indirizzare a quelli che davvero contano. I grandi poeti della sua città, «li fedeli di Amore». Cui, non senza la speranza di farsi notare, chiede conforto e spiegazioni.
E, con sua grande sorpresa, le spiegazioni e il conforto arrivano. Da una delle massime autorità intellettuali del tempo. Guido Cavalcanti, poeta e filosofo più grande di dieci anni e proveniente da tutt’altro rango sociale. Che a Dante (a questo giovane poetucolo figlio e nipote di usurai) fa addirittura l’onore di rispondere con un altro sonetto (Vedeste, al mio parer onne valore). Secondo l’Alighieri è proprio questo scambio di sonetti a decretare «lo principio dell’amistà».
È a partire da questo momento, infatti, che Dante parla di Guido come il più grande dei suoi amici («lo primo de li miei amici»).
Quando l’amore divide – L’amore cristiano di Dante contro l’amor cortese di Guido
Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io
fossimo presi per incantamento
e messi in un vasel, ch’ad ogni vento
per mare andasse al voler vostro e mio(Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io – Dante Alighieri)
Quando Dante sogna di abbandonare la realtà a bordo di un piccolo vascello è Guido che immagina di avere al suo fianco. È insieme a lui che, alla fine della navigazione, sogna di incontrare donne bellissime con cui «ragionar sempre d’amore».
Infatti, l’amicizia tra i due, è fondata per lo più su una comunione d’intenti poetici. Sulla condivisione di un modo tutto stilnovista di concepire l’amore.
L’amore: quella forza trascinante cui i poeti hanno il dovere di abbandonarsi senza riserve. Poi, nel 1290, la tragedia. La morte prende il più bello dei gigli di Firenze e se lo mette all’occhiello. La bella Beatrice che porta salute, amore e dolore di una vita, è morta. Dante, seppure annichilito dal dolore, non smette di scrivere la Vita Nova e nemmeno smette di amarla. Così, piano piano, dentro di lui si fa spazio una visione dell’amore completamente diversa da quella dell’amico.
Un pessimista della peggior specie, il caro Guido.
Convinto che l’amore non sia altro che ossessione e possessione. Una passione irrazionale capace di spegnere la ragione e abbrutire l’anima sensitiva fino a condurre alla morte.
Secondo Dante, invece, no. L’amore non è nemico della ragione e della fede, ma è anzi il loro alleato più grande. È un sentimento nobile e puro, capace di elevare moralmente e spiritualmente coloro che lo provano. Persino quando l’oggetto amato non c’è più. Per uno stilnovista (convinto che l’amore passi «per lì occhi») quest’assenza dell’oggetto amato è a dir poco inconcepibile.
D’un tratto è proprio l’amore, la cosa che li aveva uniti di più, ad allontanare gli amici di una vita.
Dante prende una strada e Guido ne prende un’altra. Poetica della lode e poetica del logoramento. Amore cristiano da un lato, amore cortese dall’altro e nessuna possibilità di compromesso nel mezzo.
La «vil vita» di Dante – Il biasimo di Guido e i germi della rottura
Cavalcanti, da amico qual è, si sforza di comprendere le ragioni di Dante. Poi le sue personali ragioni prendono il sopravvento. Trova che la condotta «vile» dell’amico non gli renda onore. Dante è un ingenuo che non sa davvero cosa sia l’amore. Glielo fa sapere attraverso un sonetto, in cui si rivolge a lui con parole molto dirette e brusche (Io vegno il giorno a te infinite volte).
Dante non risponde, ma prende atto. Prima di tutto del loro allontanamento.
Infatti, quello che nel II libro della sua opera era il primo degli amici, nel XXXII diventa l’«amico a me immediatamente dopo lo primo». Locuzione, questa, che gli studiosi sono inclini a interpretare come «l’amico di prima».
L’amicizia di una vita è agli sgoccioli. Eppure, quando nel 1293-4 pubblica la Vita Nova, è a lui che Dante la dedica. All’amico di prima. Che intanto ha abbandonato la poesia per dedicarsi esclusivamente alla filosofia. Alla filosofia ‘pericolosa’, quella che ha il sapore dell’eresia.
Averroè, soprattutto. Convinto che l’anima intellettuale sia vincolata alla sfera della natura e che la verità non abbia bisogno della mediazione divina.
Probabilmente è proprio qui che va collocato Donna me prega. Uno dei sonetti cavalcantiani dalla datazione più discussa. Una trattazione pessimistica e filosofeggiante dell’amore con cui, dopo la pubblicazione della Vita Nova, Cavalcanti pretende di avere l’ultima parola su cosa sia l’amore.
Quando nel giugno del 1300 viene esiliato a Sarzana insieme ad altri capi bianchi, tra i priori che ne decretano l’allontanamento c’è Dante. Due mesi dopo, Guido muore in preda ai deliri delle febbri malariche. È chiaro che l’ultima parola non è stata davvero sua.
L’incontro con Cavalcante de’ Cavalcanti – Il colloquio tra Dante e il padre di Guido
Quando Dante scrive la Commedia vuole arrivare a
dio. Ma, per arrivare a dio, deve prima passare attraverso ciò che è umano. Compresa l’amicizia. Quella virtù tutta umana che nella Commedia ha uno spazio vastissimo. Infatti, all’interno del «sacrato poema», gli amici di Dante (che non erano proprio degli stinchi di santo) ci sono tutti.
C’è quel ghiottone di un Forese Donati, c’è quell’inguaribile romantico di un Sordello e c’è persino quel beone d’un Belacqua. Ma Guido non c’è.
Il fatto che la Commedia sia ambientata tra il marzo e l’aprile del 1300 libera Dante dalla responsabilità più grande. Quella di stabilire la collocazione dell’anima dell’ex migliore amico, ai tempi ancora vivo.
Anche se, a essere sinceri, non è difficile immaginarlo all’Inferno. Magari al fianco degli eretici, di quelli che «l’anima col corpo morta fanno». Magari proprio al fianco di suo padre. Cavalcante de Cavalcanti. Che Dante, con grande sorpresa di entrambi, incontra nel VI girone (quello appunto degli eretici).
Non appena lo vede, Cavalcante inizia a piangere e gli rivolge una domanda. Vuole sapere dov’è suo figlio. Guido non era inferiore a Dante «per altezza d’ingegno».
Allora perché non è con lui? Perché non viaggia in sua compagnia attraverso il «cieco | carcere» infernale? La risposta di Dante, divenuta iconica:
(…) Da me stesso non vegno:
colui ch’attende là, per qui mi mena
forse cui Guido vostro ebbe a disdegno.(Dante Alighieri, Inf. X, vv. 61-63)
La logica del superamento della Divina Commedia – Dante e l’eredità cavalcantiana
È chiaro che secondo Dante l’ingegno non è tutto. Che l’ingegno è addirittura nullo, se a supportarlo non ci sono la fede e la mediazione dall’altro. Ecco cos’è mancato a Guido.
Che, a differenza di Dante, ha fatto l’errore di disdegnare «colui». Sull’interpretazione di questo «colui» la critica si divide.
Secondo alcuni Dante si riferisce direttamente a Beatrice (e quindi indirettamente a dio). È lui che quell’inguaribile materialista di Guido ebbe a disdegno, e chi altri, sennò? Che sia questa la risposta di Dante a Donna me prega, a distanza di anni? Non è da escludere, considerando l’indole non così poco rancorosa dell’Alighieri.
Secondo altri, invece, Dante vuol fare riferimento a Virgilio.
Simbolo della poesia epica e della poesia in generale. Di quel sublime strumento di elevazione che Guido disertò per dedicarsi alla sterile e pericolosa filosofia. (Guido, infatti, più che come poeta viene infatti ricordato dai suoi contemporanei come un filosofo.)
Indipendentemente dall’attendibilità dell’una e all’altra campana, una grande verità si rende evidente. Ancora una volta Dante agisce in funzione di quella che Sarteschi ha definito come «logica del superamento». Una logica che si esprime nel bisogno costante che Dante ha di superare i propri padri letterari, allo scopo di sostituirsi a loro e di contendergli il primato.
Si pensi, a tal proposito, al canto XI del Purgatorio. Al discorso sulla vanità della gloria terrena che Dante mette in bocca ad Oderisi da Gubbio. A Cimabue deve sostituirsi Giotto. A Guido (Guininzelli) deve sostuirsi l’altro Guido (Cavalcanti). E all’altro Guido, invece? Un uomo che è già nato e che, forse
l’uno e l’altro caccerà dal nido.
(Dante Alighieri, Purg. XI, v. 99)
Un’espressione piuttosto oscura, questa. Eppure la critica non ha dubbi. Non ci sono più dubbi sul fatto che Dante, con la modestia che gli è propria, stia parlando di quello che la sua opera vuole elevare al rango di poeta più grande di tutti i tempi. E chi sarà mai costui? Ma Dante stesso, ovviamente!