Non saprei come definire la stagione che stiamo vivendo, al di là dell’evidenza climatica. Per l’umanità forse più che una primavera, potrebbe essere un autunno dove si mettono a dimora nella terra arata con sofferenza e sudore dei semi che potranno dare un raccolto rigoglioso o che invece seccheranno senza darci nutrimento.
Il tempo dilatato dovuto al necessario isolamento ci ha dato modo di guardarci dentro, la lontananza ha acuito il desiderio di cose, persone e gesti.
È così che “Scritto d’autunno” di Sabatina Napolitano, edizioni Ensemble 2019, 90 pagine, 12 euro, diventa un libro attuale perché intimistico e riflessivo.
Nel libro, con prefazione di Gabriel Del Sarto, si alternano cicli di quattro poesie a una prosa, impregnati di sentimento e scrittura.
È l’autrice stessa che cerca una risposta al bisogno di lasciare il segno sulla pagina nella prosa: Non è ancora una volta subire una miscelazione…
Poi, del motivo perché lo fai, perché scrivi
è molto probabile che sia per giocare col tempo
così come molti avranno fatto durante l’emergenza che ci ha visto coinvolti, ma che è un bisogno viscerale per altre persone.
I ricordi si accavallano e diventano vividi nell’accompagnarsi alle sensazioni lasciate dall’ambiente, l’umidità e la tristezza della pioggia in Le cose sono sempre le stesse così come i colori
Un vestito blu è solo un vestito blu,
come una camicia blu, come delle gallerie aperte:
io ero lì ma la pioggia non ne ha memoria.
O nella prosa successiva
La neve non importa più a nessuno,
se non è capace a riempire il silenzio.
quando le parole riescono a catapultarci nella scena di una nevicata in grado di lasciare attorno a sé solo un’atmosfera ovattata e il silenzio.
Il volume è pregno di una sensualità molto spesso velata, quella dovuta ai piccoli gesti colmi di attesa e desiderio. In questi rituali le mani diventano le protagoniste come in Un freddo può sciogliere
le mie dita spinte
sul viso, il modo in cui mi proteggo
e spengo ogni ritornello solo per essere
l’anello puro di me stessa
oppure nei versi di D’inverno… che riporto interamente:
D’inverno: “devo sceglierti le mani, devi scegliermi le mani” era questa l’unica vita in cui stare,
l’unico sogno di tavolo e di cucina dell’accadere.
C’erano i ricordi, le farfalle, le case antiche.
Più di ogni cosa altra c’erano le ore a scorrere, tu che progettavi e proteggevi, io che riempivo ispirazioni vuote.
Forse il sentire costante d’agrumi,
non so come separarmi da te, domani e futuro, le farfalle possono aiutarmi a trasformare continuamente, qualcuno in te
ma sono solo fogli gialli su cui leggo parole quando i fiori sono feriti e vivi
con te, io voglio baciare
i petali secchi delle mie rose. Rifaccio il letto.
Dove l’elegia viene bruscamente interrotta dal ritorno alla realtà del gesto quotidiano, e molti sono i versi pervasi da questa sensualità pudica come un gioco che continui tra le righe.
Pur essendo un inno alla lontananza, dei vivi come dei morti, come in In autunno reggo i miei pensieri
Poi come l’autunno ad ottobre si fa pieno
parla con un soffio che accompagna le parole dei morti quando tocca a noi vivere come le parole degli dei
e dei saggi
rimane carico della voglia di vita, di oggetti, libri, sguardi e di sentimenti. Quella che avevamo trascurato e dobbiamo imparare di nuovo ad apprezzare, e quale momento migliore di questo per farlo?
Amare con l’insistenza
di chi abbandona la timidezza
chiude i pugni anche quando
si fa così vivo il corpo.